La lingua infelice della PA

Anche oggi ho avuto a che fare con la pubblica amministrazione. Anche oggi ho pensato che il coaching diffuso nel mondo della pubblica amministrazione produrrebbe molti cambiamenti. Come primo risultato, sono certa porterebbe l’uso di una lingua diversa e di conseguenza un diverso modo di stare al mondo.

Se la comunicazione non fosse oscura e impersonale, chi comunica dovrebbe prendersi la responsabilità di ciò che comunica.

Se non fosse barocca e non utilizzasse vocaboli e perifrasi superati, i cittadini la capirebbero e potrebbero addirittura contestarla.

Se la comunicazione non fosse prolissa:“In coerenza con le indicazioni strategiche ad interim per preparedness e readiness ai fini di mitigazione delle infezioni da Sars-CoV-2 nell’ambito dei servizi educativi per l’infanzia gestiti dagli enti locali, da altri enti pubblici e dai privati, e delle scuole dell’infanzia statali e paritarie a gestione pubblica o privata per l’anno scolastico 2022 -2023 dell’Iss e del relativo Vademecum pubblicato sul sito del Miur, si è reso necessario aggiornare le misure di mitigazione delle infezioni da Sars-CoV-2 nell’ambito dei servizi all’infanzia del comune di Milano, attraverso il ripristino di modalità organizzative coerenti con il mutato scenario epidemiologico” giuro che è un testo vero...

Ammettetelo, non avete letto il paragrafo fino in fondo 🙄 Dicevo, se non fosse prolissa, semplicemente la leggeremmo e potremmo tenerne conto.

Se la comunicazione non usasse parole inutilmente tecniche, latinismi, anglismi e altre perversioni semantiche, anche anziani, ragazzini, analfabeti, stranieri la capirebbero e sarebbe più equa e inclusiva.

Se lo stato comunicasse assumendosi la responsabilità di ciò che comunica, facendo attenzione ai diversi destinatari per essere compreso da più persone possibile, facendo richieste chiare e offerte inequivocabili, sarebbe un altro mondo. Più giusto.

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“La parola spetta agli uomini” (Omero)