Le grandi dimissioni

Cosa fanno quelli che si licenziano?
Mi viene da dire che investono su altro, su un'altra idea di futuro. Che non è chiara. E' un rischio, un azzardo un po' inquietante, come tutte le rivoluzioni.

Durante l'arresto degli anni pandemici, la paura dell’apocalisse imminente, ben combinata con la retorica sui cambiamenti inevitabili e necessari, mi sembra abbiano messo in moto una energia che era investita nella produzione di beni e di ricchezza e che oggi cerca la strada verso un panorama nuovo.

Se così fosse, non è detto che siano ingegneri ed economisti le persone che sapranno come affrontare il problema, quelli giusti a gestire le persone, a guidare i team, a elaborare strategie di lungo periodo.

Forse tutti questi umanisti disoccupati potrebbero essere inseriti in mondi professionali in cui le loro competenze fanno la differenza?

Dico questo perché da ciò che vedo e che leggo, le aziende restano ferme davanti al cambiamento: cercano le figure professionali che hanno sempre cercato, restano su modelli di organizzazione del lavoro che sono sempre gli stessi, hanno una paura maledetta dei giovani, non capiscono le nuove figure professionali e non sanno come usarle.

Non stupisce il missmatch tra una generazione che è stata cresciuta nel mantra dell'impegno e del sacrificio per un radioso futuro di riconoscimento sociale e una a cui è stato detto che il futuro non esiste, a meno che non si operi un cambiamento drastico che alteri tutti i valori e ogni priorità.

Non sarà che, nell'incredulità generale, qualcuno questo cambiamento lo sta davvero attuando?

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